"Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio sia glorificato»" (Gv. 11,4)

Così dolce; ma così tenace. Così paziente e silenziosa; ma così, decisa a farsi ascoltare. Davvero Benedetta era — anzi è — così: mi sembra di poterlo testimoniare. E non solo per averlo letto nel suo diario, nelle sue lettere, nelle dichiarazioni di chi l'ha conosciuta. La mia stessa esperienza per irrilevante che sia — può forse testimoniarlo. Cerco di ricostruire i fatti. Qualche anno fa (due? tre? ricordo solo che da poco mi ero trasferito a Milano) l'usciere del giornale mi avvertì che una signora — che non attendevo e il cui nome non conoscevo — era nell'atrio e voleva incontrarmi. Feci salire in redazione la sconosciuta che mi «aggredì» affettuosamente, sommergendomi di parole, di libri, di immaginette. Non capii molto: intesi solo che era questione di una ragazza «morta in concetto di santità», della quale avrei dovuto occuparmi, presentandola ai lettori del mio giornale. Di Benedetta Bianchi Porro poiché di lei si trattava — non conoscevo neanche il nome, niente mi era giunto all'orecchio della sua breve, prodigiosa, avventura. Quella mattina bussava per la prima volta alla mia porta, con l'aspetto e la voce di quella donna distinta ma un po' affannata per lo sforzo di convincermi dell'importanza di far conoscere la sua beniamina. Confesso che, appena potei, (il collega grafico urgeva per avere titoli e pezzi impaginare) congedai la signora con parole vagamente rassicuranti. I libri lasciatimi in omaggio (titoli un po' anonimi, non tali da far scattare molla della curiosità del cronista: Il volto della speranza, Oltre il silenzio) finirono tra tanti altri su un tavolino dell'ufficio. E lì restarono, malgrado le buone intenzioni di esaminarli, sepolti via via da altre pubblicazioni. Un giorno, durante un periodico repulisti, finirono a casa mia e sparirono inghiottiti dalla biblioteca, forse ormai troppo grande, di certo ingovernabile per mancanza di schedario. Eppure, sullo scaffale secondario dove erano stati relegati non dovevano restare a lungo. Mi misi infatti alla loro ricerca al ritorno da una imprevista gita a Sirmione. Girando per quella celebre penisoletta, si finì («per caso»: ma le virgolette mi sembrano doverose) nella piccola, appartata chiesa di san Pietro. Dentro, pubblicazioni, immaginette, forse anche una lapide che ricordavano la ragazza di cui mi aveva parlato quel mattino la signora sconosciuta. La riconobbi non dal nome, ormai dimenticato, ma dal disegno di Annigoni. Da qui il recupero dei libri, una prima ma già sconvolgente scoperta del «caso Benedetta» La quale, da allora, mi è sembrata tornare periodicamente alla carica, con quella costanza dolcemente implacabile alla quale accennavo. Ora era un lettore che, scrivendomi, mi parlava di lei; ora era qualcuno che, dopo una conferenza, si avvicinava come furtivo per passarn una sua immaginetta; ora era l'incontro con persone, giovani soprattutto, la cui vita era cambiata dopo avere conosciuto la sua storia. Infine — improvvisa quanto pressarti la richiesta di stendere qualche riga per questo libro. E anche qui ho dovuto alla fine arrendermi, ritornare su un primo rifiuto: tante altre cose da fare; e poi, la consapevolezza di essere del tutto inadeguato per affrontare una storia tanto meravigliosa e terribile. Meglio rivolgersi ad altri, insistevo; o, come appunto nel progetto del libro, in cu mi si voleva coinvolgere, meglio ancora, dar spazio ai bambini, quel che meglio potevano parlare di quesi «bambina secondo il vangelo». Così ho resistito; così ho recalcitrato Ma alla fine, eccomi qua a scrivere. E a testimoniare anzitutto (vincendo, e quanto forte!, il peso del rispetto umano), a testimoniare, dico, di una grazia — piccola oggettivamente, per me grandissima subito ottenutami, da Benedetta. È stata la grazia del ritrovare quello che gli spirituali chiamano «il dono delle lacrime»; un dono che da tanti anni mi era negato e che queste righe di diario mi hanno riofferto. Ma il pianto non è venuto leggendo i segnali faticosi e drammatici che Benedetta riusciva ancora a dare di sé quando già era murata nella sua prigione (ma lei lo chiamava «nido») di paralitica, di insensibilizzata, cieca. Una creatura, quella, orinai trasfigurata dalla croce, già invasa da una gioia misteriosa, fatta ormai maestra a tutti dalla imitazione dell'unico Maestro. No, non, è quella per me, s'intende — la Benedetta tanto straziante da strappare lacrime a chi, ahimé, ne è avaro. È piuttosto la ragazzina che i compagni chiamano «la zoppetta» e che si sforza di correre come le altre; è poi la ragazza sorda ma che non si rassegna, che si fa accompagnare da una servetta all'università, perché l'avverta che leggono il suo nome all'appello e così, non dare a vedere la sua menomazione. E a quelle orecchie che più non sentono mette grandi pendagli (così visibili in tante sue foto) come ingenua, deliziosa civetteria; come disperata difesa della sua femminilità minacciata. Le lacrime le strappa la ragazzina che annota sul diario che la gamba le fa male, per aggiungere però subito: «ma che importa? bisogna essere ottimisti nella vita»; l'adolescente che scrive «sono assetata di vita» per chiedersi poi.. «sarò di nuovo sconfitta?»; la studentessa che raccoglie il libretto gettatole in mezzo all'aula dal barone esasperato dalla sua sordità, che si arrampica con le unghie e con i denti su su per il faticoso curriculum scolastico sino al penultimo esame e scrive infine, esausta: «Mi basterebbe arrivare ad esercitare, anche come l'ultimo dei medici». Questa è la Benedetta che più mi muove nel profondo.. quella che confida all'amica che (farebbe qualunque cosa per guarire», la creatura impaurita che non ha ancora accettato il suo destino, che è ben lontana dalle parole che detterà, dopo l'ultimo viaggio a Lourdes e che già la pongono in un cielo inaccessibile per noi mediocri.. «... e io mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo...» (E Maria Grazia, l'amica più cara, parlerà di quel periodo estremo come di «qualcosa di grande e terribile», di «inesprimibile maestà», di «cose che non si potevano ascoltare senza tremare»). Perché Benedetta Bianchi Porro è venuta tra noi? Perché vi è restata per i suoi 28 anni? Che cosa aveva da comunicarci in questo scorcio di secolo che si apre verso il terzo millennio cristiano? Che mai si è voluto dirci, rinnovando in quel corpo di donna, il martirio («testimonianza», secondo l'etimologia) della Passione di Cristo? Ogni risposta a queste domande non è che sforzo impotente per sondare il mistero. Pur ben consapevole di questo, in questi giorni di riflessione, ho tentato — come potevo — di formulare il mio provvisorio, dubitoso tentativo di risposta. Due sostantivi, innanzitutto: eutanasia; suicidio. Davanti al caso di Benedetta Bianchi Porro l'eutanasia sarebbe stata un dovere. E, se i medici non avessero provveduto a quella necessità pietosa, sarebbe toccato a lei — lei la cui sola pratica _ medica fu la diagnosi del suo male farla finita in un momento con quella prospettiva sicura di una sofferenza da trascinare per anni. Non c'è scampo: umanità e logica non suggeriscono altre soluzioni. Si intende.. logica e umanità del «mondo»: non certo quelle della fede, la sola porta che dia accesso a una dimensione dove, già qui, una Benedetta non è uno scarto umano da gettare al giù presto, ma cittadina privilegiata. E davanti a questi casi-limite che trova conferma, senza possibilità, di smentita, quella verità che vorrei ricordare con le parole particolarmente efficaci dette nel 1974 per il decimo anniversario della sua morte, il suo dies natalis, dal relatore Gianfranco Morra: «La croce di Cristo è il mistero delta sofferenza, del giusto, della mole incalcolabile di dolore che l'umanità, sperimenta e che non può avere nessuna spiegazione razionale. Di fronte a questa esperienza sconvolgente, ogni filosofia fa miserabile naufragio.- la saggezza indiana e la rassegnazione stoica, le teodicee intellettualistiche e le droghe politico-sociali non riescono neppure ad affrontare il tema del dolore e della morte, che è il tema stesso dell'uomo. Tutte le filosofie e le religioni sono tentativi di dare risposta a questo problema; ma la risposta autentica viene dall'esperienza cristiana, la quale rifiuta la pretesa di una soluzione razionale del problema. Il dolore e la morte — conseguenze di quel peccato originale che tutto il mondo moderno cerca di nascondere o di narcotizzare - non vanno spiegati, ma assunti e sublimati, sospesi e inseriti nel mistero della grazia e nell'imitazione di Chi ha redento il dolore con il dolore e con la morte la morte. Verità, semplici, quasi scontate; ma che vanno oggi ribadite con chiarezza. Succede infatti che, ora che il nome di questa ragazza circola sempre di più (anche fuori di certo mondo cattolico) già si delineano tentativi di esorcizzarla. Quasi si sia trattato di un bell'esempio di coraggio e niente più; dunque un'esperienza dura ma vivibile da chiunque, anche in base alla sola morale laica, alle forze e ai valori di non sai quale «umanesimo», senza, un aggancio religioso. Eh, no: questo non si può fare. Non bisogna lasciare che ci rubino Benedetta con simili frodi. Perchè la resurrezione nel mistero di Dio è nel cuore di tanti uomini, la sua nobiltà, la sua grandezza,il mistero del suo coraggio invincibile pur essere nell'umanissimo dibattersi (prima mi agitavo come in un vestito troppo stretto;ora va liscio) tutto questo è possibile soltanto in una dimensione esplicitamente cristiana. Lo ripeto(ma, forse qui più che mai repetita juvant): al di fuori del cerchio della fede, non ricorrere qui all'eutanasia sarebbe stato disumano; non mettere qui in conto il suicidio sarebbe stato irrazionale. Aspetto tranquillamente che si tenti si smentirmi. (Il signore non poteva darmi una vita più bella e più ricca): sono parole che le scrive Maria Grazia, quando il martirio ha raggiunto il suo vertice e l'amica non è ridotta che a un tronco che respira e pena. Parole scandalose, di ributtante sadismo, di cinica irrisione se dette da un qualsivoglia punto di vista "laico, anche il più alto e nobile. E invece parole vere, comprensibili, giuse anche se terribili , se dette in una prospettiva di fede cristiana. Qui e qui soltanto la peggiore delle vite agli occhi degli uomini carnali può essee intravista come "la più bella e ricca". Ma mi pare che ci sia un'altra verità, anch'essa di vangelo puro, nudo, crudo — per ridirci la quale questa mirabile zoppetta ci corre incontro; per ridirci la quale questa paralitici sorda e cieca ci convoca accanto a un letto dal quale se ne andrà, cantando colla voce miracolosamente restituitale, non un solenne canto ecclesiastico ma l'infantile «Rondinella pellegrina». È una verità che sembra anch'essa particolarmente attuale, in questi anni in cui anche certi teologi sembrano convertiti alle illusioni efficientistiche del «mondo» ai predomini della prassi, alle teologie per i soli giovani, sani, forti. Benedetta non ha studiato teologia, ma come tutti i «santi» (non è forse già tale per una schiera crescente di persone?), insegna con la sua vita stessa che la migliore delle teologie in quell'altro paradosso del vangelo: per raccogliere i frutti più abbondanti non occorre «fare»; ma piuttosto «lasciar» (anzi «lasciarsi») «fare». Basta abbandonarsi, fiduciosi come bambini, a mani le cui mosse ci sembrano incomprensibili ma che sanno come plasmarci. Così, alla pari di quella di Teresina di Lisieux (la cui Storia di un'anima conosceva ed amava) anche quella di Benedetta è una «piccola via». Ed la, via giusta per raggiungere il «successo», perché passa attraverso l'insuccesso più totale; è la via giusta per ottenere frutto perché accetta, il destino del chicco di frumento che sepolto per marcire («Stamattina ho messi tanti noccioli di ciliegie sottoterra, perché nasca la piantina di ciliegie», scriverà, nel diario, a otto anni, come per un inconsapevole presagio). «Piccola via», la sua, anche dopo la morte. La quale non è seguita dal clamoroso uragano di gloria che investì, subito, il sepolcro di Teresina. Attorno alla tomba della piccola romagnola, nell'abbazia della sua Dovadola, invece, una «gloria» che cresce di anno in anno, costante ma sommessa; in modo capillare ma anche discreto. Con interesse da giornalista esamino l'elenco (preparato, con il consueto amore intelligente dalla associazione degli «Amici di Benedetta») delle notizie su di lei apparse sulla stampa. Constato che per un paio d'anni questo chicco di grano (questo «nocciolo di ciliegia») macerò nel silenzio per spuntare poi solo timidamente, con qualche accenno qua e là. Da allora non ha fatto che crescere (in qualità e in quantità: dai piccoli bollettini alle grandi testate) la lista di coloro che di lei hanno scritto . Saranno sempre più numerosi, c'è da esserne certi. Disse nell'estate del 1963, pochi mesi prima del ritorno alla Casa del Padre: "Non posso che balbettare e ho infinite cose, dolcissimo, da comunicare a Lui". Ha ora tutta l'eternità. Quando a noi, ha già cominciato a dircene molte; ma è sicuro che ne ha ancora tante (e tutte "dolcissime") da comunicarci.

Vittorio Messori

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