SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE

Quando si soffre nella carne o nello spirito il pianto è la naturale risposta. E di pianto ce n'è tanto, ma tanto. Se lo calcolassimo, prenderebbe lo spazio di un mare, di un grande mare. Quando gli occhi per un istante si asciugano, ci mettiamo a pensare. Perché? Perché Signore tanto pianto? La risposta non viene così, facilmente. Poi riprendiamo a piangere e i pensieri si ingarbugliano, inciampano, intristiscono come uccelli feriti. Poi torniamo a chiederci.. perché, perché? Qualcuno che soffre molto arriva, a dire con Giobbe: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in, cui si disse: è stato concepito un uomo» (Giobbe 3, 1). Sotto la mano pesante della sofferenza possiamo arrivare a non capire il perché della vita e a maledirla come una disgrazia irreparabile. È questo il fondo dell'abisso, è l'oscurità totale dove manca lo spiraglio della fede.

Ma le cose non stanno così e, pur gridando, avverto che le mie parole sono insensate e tutt'al più uno sfogo che non contiene risposta. Poi il pianto ricomincia e va ad aumentare il livello del grande mare del dolore. Dal fondo dell'abisso affiora però una piccola traccia di speranza come se il dolore che abbiamo sperimentato generasse un'esperienza fino ad allora sconosciuta. È' impossibile che tutto questo non ablúa, significato, è impossibile che «Colui che ha fatto i cieli e la terra» non, abbia dato un significato a questo buio che mi avvolge sotto il tessuto pesante della sofferenza. Del resto è Dio stesso che si prende cura di rispondermi, quasi per chiudermi la bocca: «Dov'eri tu quando ponevo i fondamenti della terra? Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai? Chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino? (Giobbe, 38, 4-7).

Mi ammutolisce la sua grandezza e come risposta di speranza tento allora di dire le stesse parole che confortavano Giobbe con la forza del loro contenuto logico. «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile a te» e aggiungo sorpreso dell'esperienza nuova: «Io ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono» (Giobbe, 42, 1-5). Qui c'è veramente del nuovo. Si direbbe che il passaggio del dolore in noi rechi con sé nientemeno che la conoscenza dell'Assoluto, la conoscenza di Dio stesso: «Signore, se, prima ti conoscevo per sentito dire, ora nel dolore ti conosco di faccia». Ciò che vedo è il Cristo. Ed è il Cristo la spiegazione di tutto. Giobbe è la risposta dell'uomo che pensa sul problema della sofferenza. Ed è un massimo. Difatti è difficile trovare un libro sul dolore più, straordinario più vero più umano.

Però non è tutto e la Parola trova un altro sentiero fatto per chi al posto del pensiero vuole adoperare l'amore. Per chi ama il sentiero vero è il sogno, ma un sogno così vero che si chiama «sogno messianico». È il sentiero dei semplici, dei piccoli, di coloro che proprio per la loro piccolezza entrano con facilità nel regno promesso da Gesù di Nazareth. Il sogno messianico è la più grande speranza concepita dall'uomo che ama Dio. È l'utopia che diventa realtà viva. È la soluzione di tutti i problemi, è la risposta a tutte le oscurità, anche le più oscure, è la pacificazione di tutte le inquietudini. In fondo il sogno messianico è il sostegno vitale del popolo di Dio in marcia nel deserto, è la sicurezza nell'insicurezza, è la libertà nella schiavitù, è la speranza nella prova, è ciò che mi dà, la forza di vivere nella diaspora di Babilonia. Ecco come lo annuncia il profeta: «Dite agli smarriti di cuore, coraggio, non temete: il vostro Dio viene a salvarvi (Isaia, 35, 5), allora si apriranno gli occhi ai ciechi, si schiuderanno le orecchie dei sordi. Alloro, lo zoppo salterà, come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto» (Isaia 35, 5-6). Non c'è limite alla concretezza di questa visione e alla luminosità di questo quadro. Vedi i piccoli soffrire? Ecco la risposta nel sogno.- «Il lattante si trastullerà sul nascondiglio dell'aspide, il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi e non si farà alcun male (Isaia, 11, 8). Vedi il mondo diviso dal rancore e dal sopruso dei potenti? «Il lupo dimorerà insieme can l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (Isaia, i 1,6-8). Ecco ciò che vede il profeta. Ma sopra ogni altra cosa che ti può far soffrire quando il sangue scorre e la guerra imperversa come luogo di morte e come sconfitta dell'amore dell'uomo, ecco il grido di risposta: «Forgeremo le nostre spade in vomeri e le lance in falci,» (Isaia, 2-4). Dio vince.

Dio non può permettere la vittoria del male. La creazione marcia verso la resurrezione non verso il caos. La morte fisica e la sofferenza non sono altro che crisi di crescita, strumenti di purificazione, aumento di capacità ch amare. Difatti Giovanni riassumerà con la sua stupenda immagine tutto il problema sul dolore e sulla morte: «Se il chicco di grano non muore non può fare frutto». Vivere con la visione del regno negli occhi, significa sapere fin d'ora che verrà, un tempo in cui non ci sarà più né lutto,né lamento, né affanno, perché «le cose di prima sono passate. Io ,faccio nuove tutte le cose» (Apocalisse, 21) La vita, fumata è un cammino verso questo regno e il tutto ci è dato per maturare nella speranza. E la speranza vince. Dio cerca creature che sappiano vivere nell'amore quest'avventura e sono le privilegiate della vita. Benedetta è ma di queste.

Vediamone insieme la storia. Benedetta Bianchi Porro è una ragazza del nostro tempo. È bella, intelligente, colta, volitiva, dolcissima; porta tutto nel bagaglio del suo cuore ben fatto, uscita da una terra assolata, feconda e stupenda come la Romagna. Ma ecco che man mano si apre alla vita, prende coscienza di essere terribilmente malata, man mano la sua sensibilità si affina, si accorge di divenire sorda, cieca, paralizzata. La malattia la sta chiudendo in una gabbia di immobilità e su un letto di solitudine mortale. Che ,fare? Benedetta intraprende un cammino di salvezza, cerca un'uscita di sicurezza e la trova in Dio. Dio diventa il suo tutto, il letto della sua intimità, la forza del suo camminare, la gioia capace di riempire la sua estrema povertà. Intanto non cede e ubbidisce al detto dei santi.- «Fa' come se tutto dipendesse da te», si sforza come toccasse a lei sola di realizzarsi. Decide addirittura di diventare medico e ce ne dice il perché: «Voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli uomini». Sì, bisogna fare come se tutto dipendesse da noi. Lo dice sant'Ignazio, ma poi «abbandonarsi come se tutto dipendesse da Dio». E Benedetta si abbandona. Non è facile. Non è facile quando abbandonarsi significa accettare anche il ridicolo della sordità e l'incapacità di comunicare con chi si ama. Ma lei, si abbandona al sogno di un Dio che la prenderà per farla felice. Ma ora mi taccio. Non tocca a me continuare. Tocca a Benedetta raccontarmi il suo sogno e raccontarlo ai più piccoli tra di noi. Incaricheremo gli alunni della IV elementare di Lugo ad ascoltarla come l'ascoltiamo noi, ma a fissare con disegni ciò che Benedetta racconta. Raramente un sogno è stato così ben interpretato dai piccoli che disegnano. Ora io taccio e guardo.

Carlo Carretto

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